La ricerca di Franco Crocco si è evoluta seguendo la sperimentazione informale, concepita soprattutto in relazione ad una produzione pittorica che predilige linee espressive autonome e in continuo aggiornamento. La possibilità di combinare fra di loro tecniche assai differenti, in una persistente e costante volontà di aggiornamento, ha permesso all’artista di esplorare campi spesso inaccessibili e senza l’esigenza di arrivare ad un lavoro compiuto. L’alternativa tra un’opera definita ed integra e un’elaborazione non compiuta è spesso risolta in una sorta di work in progress in cui si vuole riservare un posto di primo piano al processo, all’evoluzione della forma più che al risultato. In questa prospettiva l’opera si riempie volontariamente di molte opere e della loro continua revisione. La recente produzione di Franco Crocco alterna opere nelle quali il richiamo alla natura, e in particolare alle stagioni, risulta essere sempre più evidente, ad altre in cui l’artista introduce frasi o parole significative tese a rafforzare un tema specifico, spesso di carattere sociale o legato alla contemporaneità. Negli ultimi anni le sue esperienze legate all’insegnamento lo hanno portato ad elaborare una nuova serie di opere cicliche ispirate alle leggi della Gestalt ed agli accumuli, con l’utilizzo di materiali di riciclo che evidenziano un notevole impatto visivo.
The research of Franco Crocco concerns some kinds of informal experimentations: it is especially conceived in relation to a pictorial production which prefers autonomous and expressive lines following their continuously update. In a permanent and constant effort to adjust all the works, the possibility to combine among themselves many different techniques allows him to explore inaccessible fields without the need to obtain a definite and permanent work. The balance between a completed work and an opened process is often resolved in a sort of work in progress in which the desire to reserve a specific place to the process, rather than the result, is the real core during the evolution of the form. From this point of view, every work can be only completed by many other works and trough their continuous evolution. The recent production of Franco Crocco alternates his interest in the priority of nature - and in particular of seasons – and his rehabilitation of a characteristic ‘word’s pattern’ (composed by words or sentences) used to make more explicit a specific theme of interest. In the last years, all the experiences related to teaching led him to develop and project a new series of works inspired by the laws of Gestalt and accumulation, using recycled materials which can guarantee a remarkable visual impact.
di Donato Conenna
Nel caso Crocco – di caso sicuramente necessita parlare – l’immagine diventa immaginazione: e ciò che si estende sulla tela non viene dal visto immediato, ma da una sorta di collazione delle una, cento, mille sensazioni che “prendono” la mente del pittore nel momento magico dell’Es (esprimere, esternare, esperire, porquoi pas?, esplorare). E non è difficile, di fronte alle elaborazioni di Franco Crocco, avvertire la differenza finale tra guardare e vedere. Lo sguardo dilaga, si estende, perde il senso prospettico e della distanza. I colori sfumano verso un unicum di cromie che lasciano ampi spazi di incertezza latitudinale. La visione ravvicina, “taglia” la luce, la emblematizza, la impregna di sostantività letterista. Si direbbe, e si avverte quasi sensorialmente in molte sue tele, soprattutto in quelle di segno più articolato, che ad una sottrazione di spazio narrativo, ad una pervicace sintesi, corrisponda una addizione di profondità e quindi un surplus di emotività. Quando non diviene simbolo, monito, significato: più che l’immagine, sulla tela Franco Crocco riporta gli echi, a volte impattanti sugli scritti, in vibratili colature della immagine stessa. Crocco non si lascia abbacinare dalla suggestione della forma. Affronta, si direbbe in campo aperto, l’antico dilemma tra il visto e il sentito, tra il cercato e il trovato. E’ il dualismo tra immagine e immaginazione, che condiziona la storia e ne accompagna il percorso. Nessuna meraviglia. Gli artisti accettano di buon grado questa sorta di condanna che li lega e li libera, in dipendenza dell’intensità del messaggio di cui sono espressori. E’ l’arte astratta, sempre più sovente, che, libera dai vincoli del dire ciò che si è visto come testimone oculare, suggerisce di esprimere ciò che si è sentito dentro come protagonisti della percezione.
di Mariano Apa
I grumi e gli agglomerati materici che caratterizzano gli anni tardi del decennio ottanta e della prima metà degli anni novanta, sembrano alcune volte dilatarsi nella calma del diluirsi acquitrinoso della pennellata che incespica, trasecola, si impiglia nei materiali impiegati. Carte e stoffe, tele plastiche e truciolati, colle e materia di pittura essiccata come si trattasse di materie biologiche gettate al freddo di stagioni dimenticate. Crocco sembra, alcune volte come impuntarsi su racconti minimalistici. Si ferma a elaborare pensieri che ricamano un perimetro di spazi incastrati gli uni agli altri, viene ad elaborare una trama di vicinissimi rimandi di sezioni lavorate per compiacenze cromatiche: freddi a freddi, caldi a caldi, tonalità a tonalità fin dentro la stratificazione da velature a velature relazionate e mai contrapposte. In altri casi, sembra come di intravedere un rimando al Birilli struggente dei suoi viaggi alle Cinque Terre e nelle Marche. Nella sequenza delle immagini deposte così tra il decennio Novanta e questi anni del Duemila, Franco Crocco edifica una capace narrazione che forgia gli spazi e li piega all’affabulazione dell’imprimitura lirica, non narrativa. L’artista, ovvero, non si sofferma sui ricami delle stratificazioni materiche ma decanta velature e imprimiture di assorbita luce meridiana, serale quasi. Nella pratica della materia pittorica viene a dimostrarsi una indicazione di campiture luminose dove il carattere di matericità non appartiene più alla realtà del supporto usato, della catramosa o gessosa resa del materiale impiegato; bensì si rende edotto nella specificità della materia della pittura. Crocco giunge, proprio in questo ultimo versante del suo lavoro che fuoriesce dalla fucina del 2006, alla decantazione della pittura come materia della stessa, come corpo cromatico che stratifica nelle velature dilatate e corpose la resa della denominazione cromatica comune a impiegare la valenza poetica dell’emozione del disegno perseguito realizzando l’immagine mostrata. Tale compendio lirico della materia cromatica in quanto realtà della pittura, si potrebbe pur vederla legata alla condizione sacrale delle icone dell’iconologica ortodossia. Quasi che un piccolo elemento di una di quelle antiche icone fosse dall’artista qui preso in considerazione e venisse, quel particolare, dilatato ai bordi dell’iverosimile. Come se nella sensibilità della logica postinformale, Crocco voglia far rivivere quell’antica pratica sacrale per rileggere la verità della spiritualità del praticare l’anatomia dell’arte. Un approfondimento e un reimpiego della elaborazione artistica come quasi ci si trovasse innanzi ad un corpo vivo che, dopo corse liberanti, giace ricolmo di sazietà per l’emozione trovata.
di Vincenzo Scardigno
“Informale è avventura, libertà, anarchia, sisma, crollo, caduta. La sua ricerca è stata la più pura testimonianza di una moralità dell’uomo e dell’artista di fronte al non senso più intimo e segreto dell’esistenza”. Franco Crocco sceglie il grande informale come vocazione estetica e creativa proponendo con le sue opere quella ricerca di identità come urgenza inestinguibile, bruciante di cogliere oltre l’immagine, il significato di una condizione esistenziale “altra” che sia contagio, partecipazione e suggestione, per chi le incontra. Le sue opere rappresentano la poesia della vita. I frammenti di scrittura evocano significativi brani del vivere che ci riportano al quotidiano scorrere della vita come fosse una comunicazione avvinta dalle voci del contemporaneo. È successo nell’ambito del Premio Arte Novara che, come Direttore artistico, ho incontrato le opere di Franco Crocco, così che mentre, in punta di piedi ma con una attrazione che è diventata fatale, entravo nelle asperità dei suoi quadri in cui si registrano improvvisi di rancide vampate di colore, dove la materia e i materiali, seppur evidenti, non esplodono come provocazione ma restano sottopelle, come emozioni di quel vissuto interno ed interiore, in permanente confronto con il mondo esterno. Una pittura fortemente sensoriale, tattile, quella di Crocco, che richiede anche l’uso delle nostre mani per carezzare le superfici a volte pallide e vellutate altre infuocate e grumose. Colori tonali, usati come luci e ombre silenti, che portano in atmosfere dove l’uomo assente in figura ma presente in spirito, si aggira. È stupefacente come egli abbia saputo valersi della forma espressiva informale per un messaggio di forma-pensiero suscitata in lui da intime, segrete emozioni di vita, tradotte in autentica virtù comunicativa, che è la originale e personalissima identità ed identificazione di Franco Crocco, contemporaneo come la vita, e quindi l’arte, sta alle sue radici.
di Giorgio Grasso
La stratificazione che si può notare nella composizione delle sue opere viene contraddistinta non solo dai diversi strati di materiale ma anche dalla tipologia di colori differenti che si accumulano. L'arte in sè non è composta dal risultato di un processo predefinito bensì dall'elaborazione e dalla stratificazione dei processi che l'hanno resa tale. E' questo il significato del lavoro di Franco Crocco: rendere arte l'intero processo che costituisce l'opera e non solo il risultato visivo finale. Nelle tele dell'artista possiamo osservare come la materia crea una vera e propria storia di ciò che stiamo ammirando e al tempo stesso questa storia ci porta ad una comprensione immediata e diretta del quadro attraverso la visualizzazione del suo insieme, insieme che rappresenta il presente, il momento esatto in cui l'opera diventa "nostra". L'informale dell'artista denota grande positività e impegno e carattere improntati alla scoperta di sè stessi attraverso l'esperienza e la continua evoluzione. Nessun percorso può dirsi errato o privo di senso dal momento in cui il percorso stesso è indice di scoperta e realizzazione, e così come possiamo osservare in ogni sua singola opera, la vita stessa e la sua carica sono la bellezza estetica che lega ogni singolo strato al risultato finale.
di Manlio Della Serra
L’ideale classificatorio, che in termini artistici punta diritto alla riconoscibilità di un irripetibile itinerario creativo, lascia spesso intendere, per contro, quale incongruenza inevitabilmente colpisca tale tentativo universalizzante. Si può indagare l’attitudine artistica senza ricorrere al prodotto che ne dovrebbe derivare? Ciò che nella scelta espressiva attesta un vero punto di forza non è nel rifiuto schivo e preservante rivolto all’innovazione del contenuto pittorico, ma in quello che lo stesso Kandinsky, nella Über das Geistige in der Kunst (B,V), avrebbe ricollocato nei domini del ‘principio della necessità interiore’ (Prinzip der inneren Notwendigkeit). Questa coscienza del gesto, selezionante e autentica, finisce col prediligere una fonte espressiva che poi ripiega a suo volere evolvendo in capacità comunicativa. Questo ‘materiale interiore’ detesta la propagazione, esaltando al contempo la rispettabilità del creatore d’arte che, così facendo, si apparta per fare chiarezza sul sentimento, senza lasciare che altro decida al suo posto quali zone d’ombra rivalutare. L’esigenza di cui si è parlato è un modo per imporsi, per approvare le regole di un universo che, come nella disavventura galileiana, appare troppo distante da quello normalmente conosciuto. L’ultimo approdo di questo pellegrinaggio della scelta espressiva ricalca una formidabile esperienza culturale che vede nei lavori di Burri, Afro, Vedova, i suoi più riusciti momenti. Se negli anni ’30 del secolo scorso una certa rigidità espressiva permetteva a W. Peterhans (Stilleben mit Gaze und Blüten, 1928-1932) di fissare l’immobilismo vivente di oggetti che ‘si trovano’ a convivere negli stessi spazi, l’evoluzione della natura morta come luogo iconografico ormai quotidiano consisterà nel fissaggio morandiano dei rapporti invisibili tra oggetti privati della loro voce. Il disgregamento materico di queste autonome realtà darà avvio al superamento degli spunti approssimati in un’opera come Weberlistilleben (1930) di W.D. Feist per recuperare l’aspetto organico e inqualificabilmente autonomo della iuta e delle stoffe intrecciate, il movimento imprevedibile della fiamma che arde ed, infine, l’arrostimento ordinato e disciplinato che ognuno vede aldilà di un movimento padroneggiabile. Nella sua complicità con il naturalismo più vivido tutto ciò diventa opera d’arte: dalle deformazioni vibranti di O. Dix (Selbstbildnis als Mars, 1915) a quelle più ordinate ed inquietanti di G. Grosz (Abenteurer, 1916), il tema del disfacimento, oltre ad attualizzare uno sguardo intransigente verso l’usurata immediatezza del realismo ottocentesco, riconosce nelle sintesi dello stiramento e della convulsione cruciali punti di forza. Questi sono i paradigmi – almeno gli ultimi – dell’esplorazione di Franco Crocco. In La prima brina d’autunno (2008), un rischioso processo di regolamentazione prova a dirigere l’aspetto vivente del sostrato materico, richiamato all’ordine dal riposizionamento di vari tasselli cui l’artista provvede in fasi di lavoro sequenziali. Il disturbo visivo dei materiali poveri o di scarto – e, in fondo, replica esegetica di essi – diventa in Alba sul lago (2007) riscoperta del vivente che li abita da sempre, persino da molto prima che ci si accorga del loro scarto funzionale. Al centro di queste operazioni di scavo una componente non del tutto prevedibile agisce attraverso la scomposizione formale dell’immagine, un fenomeno da sempre in atto che, tuttavia, va controllato, gradualmente accompagnato verso la riqualificazione, se necessario sedato nelle sue imprendibili e ottuse rivendicazioni, affinché possa diventare ciò che già diceva di essere prima che il suo lato visibile potesse trasmettere qualcosa di vivente. A dirigere tale accorpamento verso le forme geometriche fondamentali non contribuisce una certa ansia espressiva, come le ricerche di E. Heckel (Beim Friseur, 1913) o di E.L. Kirchner (Akte im Strandwald, 1913) sembrano dimostrare. È piuttosto il vivente ineludibile che sorregge i tralicci del ponte nel Rheinbrücke (1914) di Kirchner a comandare la riuscita del dosaggio nelle cromie di Ricordi infiniti (2008), certamente prossime agli spunti aggreganti de L’arlecchino povero (2000), opera in cui Franco Crocco già avvistava, soprattutto nella sovraesposizione dell’equilibrio coloristico, una chiave di volta rispetto al parametro rigidamente materico. Prove ulteriori di tutto ciò rimangono le impeccabili rese delle metropoli di L. Feininger e le tessiture di P. Klee (Phantastische Flora, 1922-26), forse tra i più vicini esempi di lavorazione del dettaglio luminoso entro uno studio matematico del colore. Tuttavia, alcune scelte di Franco Crocco (Giochi d’estate, 2007) si riversano in distillati sperimentali che, soprattutto sul versante tecnico, traducono momenti di ampia riflessione e confronto. Dall’esperienza formativa avvenuta al fianco di E. Brunori – vero ispiratore del suo perfezionamento quanto ad uso del colore – ai momenti di apprendimento vissuti con una certa spontaneità artistica – soprattutto quando si trovò ad ‘improvvisare’ nel 1992 Noi non siamo capaci – il cammino pittorico di Franco Crocco finisce per impreziosirsi di innumerevoli contaminazioni dallo sfondo comune: dal transito morandiano al tecnicismo divisionista, un attento studio del colore ricompare come cifra del suo impegno artistico. Non è un caso che la parentesi divisionista lo conduca a perlustrare le ampie possibilità coloristiche che affollano l’arcadia segantiniana – assieme al simbolismo spesso irrisolto – per rinunciare alle tematiche più contingenti e di largo impegno sociale inseguite da A. Morbelli e G. Pellizza. Nell’ultima produzione di Franco Crocco un’autentica contaminazione scaturisce dalla frequentazione, poi non eccessivamente mediata, di Afro, artista di grande complessità e di notevole spessore tecnico. L’organizzazione delle campiture, il bilanciamento dei vuoti e delle sporgenze sono soltanto alcuni degli elementi che regolano l’approvvigionamento di altissime difficoltà espressive. Prendendo a modello altissimi esempi, la tenuta scenografica delle opere di Franco Crocco risponde, con una strumentazione in forsennato desiderio di perfezionamento, ai toni severi che lo stesso Burri utilizzava per dis-trarre dall’uso della parola, fenomeno di inevitabile allontanamento e momento di eclissi per quanto ormai può ritenersi riuscito: « The words don’t mean anything to me » (Art news, dic. 1954) ripeteva, aggiungendo poi come « It is an irreducibile presence that refuses to be converted into any other form of expression » (The new Decade, 22 European Painters and Sculptores, 1956). Il luogo pittorico di Rosa Shock (2008) esiste per il modo in cui è dipinto, null’altro. Rivalutando così un’espressione che il Crispolti abbinava a toni più pacati in una delle sue allarmate analisi del ‘fenomeno Burri’, « la stessa conformazione materica che si impone come immagine » sopporta lo squarcio, la colatura come sintesi browniana, l’ustione e il graffio reciprocamente portati in superficie, fino all’insabbiamento del supporto come esigenza di celare e confondere nell’irrisolto, risoluzioni che apparentano opere come Pubblicità occultata n. 4 (2001) e il più intimista Preludio di primavera (2007).
di L. Mercuri
Le opere di Franco Crocco sono un raffinato mixage di stesure di colore brillante, toni velati da trasparenze, artifici decorativi, generosamente distribuiti sulla tela con una sensazione di casualità apparente. Invece, tutto è studiato accuratamente negli infiniti dettagli, i colori evocativi creano “spazi cosmici”, gli impasti sono carichi di luce. Definire Crocco un artista “Informale” o “Astratto” è ingannevole, egli stesso rifugge queste definizioni quando parla di sé come artista “non figurativo”, allievo del Maestro Enzo Brunori, che in anni intensi di studio gli ha saputo tramandare la possibilità di creare attraverso l’uso personale del colore un proprio linguaggio. Crocco vince la sua scommessa con la materia pittorica, con testarda enfasi, plasma la materia alla sua volontà, dirige le arditezze cromo-compositive lasciando spazio all’”imprevisto”, con accostamenti che donano alla materia stessa connotati simbolici molteplici. Il colore è trascinato, frammentato da brandelli matrici che respirano su una superficie pittorica che sembra “vivere”. Convincenti anche le sue “trasgressioni” plurimateriche che rompono la continuità dello spazio pittorico; il colore cavalca l’impatto con la materia, a volte è trattato con colpi di spatola, altre volte è steso con accuratezza, la pennellata è libera. La superficie si arricchisce di una sensazione “tattile” che attraverso la rugosità di una materia-memoria di echi vissuti affiora trionfante di forza propria, creando paesaggi dell’anima rassicuranti e inquieti, fiduciosi e tragici. Crocco attraverso un lento processo compositivo accuratamente studiato dona vita a stratagemmi estetici di sicuro impatto visivo. Una pittura carica di pathos, ove i fattori spaziali e cromatici sono elaborati con precisione, la superficie sembra dilatarsi, sottrarsi, corrugarsi, annientarsi nelle fugace impressione di un non senso. Crocco si approccia alla materia pittorica con estrema disinvoltura, in lunghi anni di ricerca stilistica è riuscito a creare uno stile personale, attraverso numerosi interrogativi risolti con il coraggio di rompere con il passato, giungendo così ad una piena maturazione artistica.